Commento al Salmo 126

Quando il Signore

PROSEGUE LA PUBBLICAZIONE DEI COMMENTI AI QUINDICI SALMI DEI GRADINI

Di Bruno Di Porto

שִׁ֗יר הַֽמַּ֫עֲל֥וֹת בְּשׁ֣וּב יְ֭הֹוָה אֶת־שִׁיבַ֣ת צִיּ֑וֹן הָ֝יִ֗ינוּ כְּחֹלְמִֽים׃

אָ֤ז יִמָּלֵ֪א שְׂח֡וֹק פִּינוּ֮ וּלְשׁוֹנֵ֢נוּ רִ֫נָּ֥ה

 אָ֭ז יֹאמְר֣וּ בַגּוֹיִ֑ם הִגְדִּ֥יל יְ֝הֹוָ֗ה לַעֲשׂ֥וֹת עִם־אֵֽלֶּה׃

הִגְדִּ֣יל יְ֭הֹוָה לַעֲשׂ֥וֹת עִמָּ֗נוּ הָיִ֥ינוּ שְׂמֵחִֽים׃

שׁוּבָ֣ה יְ֭הֹוָה אֶת־שְׁבִיתֵ֑נוּ כַּאֲפִיקִ֥ים בַּנֶּֽגֶב  

הַזֹּרְעִ֥ים בְּדִמְעָ֗ה בְּרִנָּ֥ה יִקְצֹֽרוּ׃

וּבָכֹה֮ נֹשֵׂ֢א מֶשֶׁךְ־הַ֫זָּ֥רַע   הָ֘ל֤וֹךְ יֵלֵ֨ךְ

 בֹּא־יָבֹ֥א בְרִנָּ֑ה נֹ֝שֵׂ֗א אֲלֻמֹּתָֽיו

Traslitterazione e traduzione

SHIR HAMMAALOT

BESHUV ADONAI ET SHIVAT ZION HAINU KE

CHOLEMIM

quando il Signore ci fece tornare in Sion

ci parve di sognare

Abbiamo due radici simili ma con significati diversi: SHUV significa il ritorno. Anche SHIVA può indicare ritorno, ma lo si può accostare al vicinissimo SHAVA che vuol dire far prigionieri (SHEVI prigioniero) cioè gli ebrei del regno di Giuda catturati e deportati in Babilonia da Nabucodonosor, così come gli assiri avevano deportato molti dal regno di Israele, per un metodo di antichi imperi sui popoli conquistati, per cui in scambio gli assiri portarono in terra di Israele, precisamente in Samaria, quei prigionieri esuli poi chiamati samaritani, che ancora costituiscono una minoranza in Israele. Ecco, dunque, l’altra traduzione di Rashì, così resa da Anderlini:

Quando il Signore ricondusse (fece tornare) i prigionieri di Sion

AZ IMMALÈ SCHOQ PINU ULESHONNENU RINNÀ

Allora la nostra bocca si empì di risa e la

nostra lingua di canto

AZ YOMRÚ BA GOIM HIGDIL ADONAI LAASOT IM

ELLE

Allora si disse tra le genti:

grandi cose il signore ha fatto per loro

HIGDIL ADONAI LAASOT IMMANU, HAINU

SEMECHIM

Grandi cose il Signore ha fatto per noi, siamo stati felici

SHUVA ADONAI ET SHEVITENU KA AFIQIM BA

NEGHEV

Conferma, Signore, il nostro ritorno, come il flusso dei torrenti sull’arido Neghev

HA ZORIM BE DIMÀ BE RINNÀ IQZORÚ

Coloro che seminano in lacrime

raccoglieranno in gioia

HALOKH YELEKH UVAKÒ NOSÈ MESHEKH HAZARÀ

BO YAVÒ VE RINNÀ NOSÈ ALUMOTAV

Se ne va’ in lacrime chi porta il sacco del seme

e viene in giubilo chi solleva i suoi covoni

Traduzione e commento di Dante Lattes

Canto di Gradini

Allorché l’Eterno ricondusse gli esuli a Sion

Noi eravamo come gente che sogna.

La nostra bocca era piena di riso

La nostra lingua era tutta canti di gioia.

Allora tra le genti si diceva:

L’Eterno ha fatto grandi cose per costoro!

Certo, l’Eterno aveva fatto grandi cose per noi

E per questo eravamo contenti.

Fa che ritorniamo o Eterno allo stato di prima

Come i rivi tornano alle arse terre del mezzogiorno.

Quelli che seminano nelle lacrime mietono poi cantando. Procede piangendo colui che reca il vaso dei semi

Ma rientra cantando colui che porta i covoni.

Il contesto storico del salmo è il tempo del ritorno in Sion degli esuli, che erano stati deportati in Babilonia per ordine di Nabucodonosor (prima metà del VI secolo a.C.). Erano, per meglio dire, i nipoti o discendenti dei deportati, durante l’impero persiano, vincitore di Babilonia, nel V secolo a.C. – Ciò avvenne per opera di un sionismo dell’epoca, nell’orbita della Persia, vittoriosa su Babilonia. Come, in paragone, a tanta distanza di tempo, con lo sviluppo della Alià (immigrazione) in Palestina, dopo la Seconda guerra mondiale, nell’orbita dell’impero britannico, a seguito della Dichiarazione Balfour: per quanto gli inglesi la abbiano poi contingentata e fortemente limitata. Data importante per l’antico ritorno è il 445 a.C., con l’arrivo a Gerusalemme di Neemia, il compagno e collaboratore di Esdra, in qualità di governatore nell’orbita persiana. Il professor Alexander Rofè, nell’opera Introduzione alla letteratura della Bibbia ebraica, secondo volume, edizione Paideia, tratta l’analisi linguistica dei testi: nel nostro caso dei salmi, per stabilire l’epoca in cui sono stati composti. I salmi di epoca tarda rivelano, in particolare, l’influenza dell’aramaico. Il filologo Hurvitz, in base all’analisi linguistica, ha considerato di tarda composizione il 124 e il 125. Se è considerato tardo il 125, che presenta Gerusalemme ben protetta dai monti circostanti, a maggior ragione deve esserlo il 126, evidentemente composto dopo la distruzione babilonese del primo Tempio e nel periodo del forte rapporto con la Persia, che consentì il ritorno. Il salmo esprime la felicità del ritorno, che non fu però facile. Bisognava ricostruire, insieme con il Tempio, tante cose nella terra ritrovata. «Shuva Adonai et shevitenu», in somiglianza di suoni, si esprimono due significati diversi, il ritorno (facci tornare) e lo stare, lo stato. Ecco un altro gioco di parole, da radici simili ma con significati diversi.

Di qui la traduzione di rav Menachem Emanuele Artom: «Restituiscici, o Signore, nel nostro antico stato», stato di cose, condizione, sottinteso il modo di vita prima della distruzione e deportazione babilonese, quando eravamo nella nostra terra. Si era tornati nella madre patria, ma nel frattempo molte cose vi erano cambiate ed erano cambiate in loro stessi, presumibilmente per allontanamento dal lavoro agricolo. Nelle campagne peraltro era rimasta una numerosa base sociale di contadini, non deportata dai babilonesi, che avevano sradicato dal paese e portato via la classe cittadina, colta, politicamente e nazionalmente resistente, quindi pericolosa dal loro punto di vista imperiale, di conquistatori. Ma anche la plebe contadina aveva subìto perdite ed attacchi da parte di popolazioni vicine, che profittarono dell’attacco babilonese. Ora, il ritorno dei discendenti ebrei in terra di Israele comprendeva, per evidente interesse, la regione meridionale del Neghev, dove l’arido suolo, per prestarsi all’agricoltura, aveva bisogno delle piogge foriere di fertilità. Ecco gli afiqim (singolare afiq), ba Neghev, letti di torrente in corso d’acqua impetuoso. Il ritorno nell’antico stato, nella propria terra, determinava anche un ritorno all’agricoltura, come è avvenuto nella rinascita sionista del Novecento. Quindi  la fatica nella semina e nel raccolto, che hanno valore simbolico ma anche di reale cimento agricolo: «Coloro che seminano con lacrime (per la fatica e per l’incertezza circa il raccolto) raccoglieranno con giubilo. Si avvia piangendo colui che porta il sacco del seme, verrà con giubilo chi solleverà i suoi covoni (alumotav)».

Detto tutto ciò come avvenuto in tempo antico, si deve dar conto dell’interpretazione volta alla speranza e al futuro nel Tiqqun Tehillim (formulario dei salmi) a cura di Moisè Levy, in edizione Lamed, di cui riporto la traduzione:

Quando l’Eterno farà ritornare gli esuli di Sion

Sarà per noi come se fossimo in un sogno.

Allora la nostra bocca si riempirà di risa

E la nostra lingua di un gioioso canto.

A quel tempo tra le nazioni si dirà

L’Eterno ha compiuto grande imprese

Operando per costoro e noi ne eravamo contenti [si allude alla provvidenza divina, ricevuta in altre circostanze, già nel passato]. O Eterno fai tornare i nostri esuli

Così come i corsi d’acqua (tornano a scorrere) nel deserto.

Coloro che hanno seminato tra le lacrime

Mieteranno cantando gioiosi.

Chi ora procede piangendo

Portando la sacca delle sementi

Sicuramente ritornerà con canti di gioia

Trasportando i propri covoni.

Vi sono citati Radak (David Chimki) e Ovadia Jacob Sforno (circa 1475 – 1550). Questa diversa interpretazione temporale è data, durante i lunghi secoli della diaspora, dal bisogno spirituale di rileggere il salmo protesi, in preghiera e speranza, al futuro, perché nuovi conquistatori avevano imposto il nuovo esilio, con dispersione del popolo ebraico nel mondo.

Bruno Di Porto

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